Il falso mito del concorso di colpa del lavoratore in caso di infortunio sul lavoro

a cura di Avv. Mauro Dalla Chiesa

Con il presente intervento ci si vuole soffermare su un aspetto di enorme rilevanza per tutti coloro che, in caso di infortunio sul lavoro, si trovano, purtroppo, molto spesso ad affrontare, oltre alla sempre terribile ingiuria delle conseguenze dell’incidente, anche l’ulteriore insulto del c.d. concorso di colpa: l’insulto non sta, ovviamente, nell’istituto giuridico del concorso di colpa, previsto espressamente dalla Legge all’art. 1227 comma 1 del Codice Civile, ma nell’uso improprio che di tale istituto viene quasi sempre fatto, dai datori di lavoro e da chi ne tutela o ne condivide gli interessi, allorché l’infortunato avanza la richiesta di risarcimento del danno.

La norma citata, per fare chiarezza, stabilisce che “se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate”, e questo perché l’ordinamento fa carico al creditore – che in caso di infortunio è il lavoratore, in quanto è il destinatario della tutela nell’ambiente di lavoro nonché del risarcimento monetario dovuto per la violazione della tutela – di non cooperare nella produzione dell’illecito.

Il principio, in sé semplice e di automatica evidenza, anche solo secondo il buon senso comune, deve però essere correttamente inteso ed applicato nella materia degli infortuni sul lavoro.

La giurisprudenza ci ha, infatti, già da tempo insegnato che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso (citiamo, tra le tante, le seguenti pronunce della Sezione Lavoro della Suprema Corte di Cassazione: n.7328/2004, n.19559/2006, n.7127/2007, n.9817/2008, n.3786/2009, n.4656/2011, n.16474/2012).

Da qui, deriva che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, atteso che la condotta del dipendente può comportare l'esonero totale del datore di lavoro da responsabilità solo quando essa presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, cosi da porsi come causa esclusiva dell'evento.

Questo principio cosa significa in concreto?

Significa, innanzitutto, che il comportamento imprudente del lavoratore, quando non presenti i caratteri estremi sopra indicati, potrebbe invece tutt’al più rilevare come concausa dell'infortunio, ed in tal caso la responsabilità del datore di lavoro può essere proporzionalmente ridotta.

Ma, e qui sta l’importanza di un’analisi più attenta, significa prima ancora che allorché la condotta del lavoratore, anche quando sia stata accertata come imprudente o negligente o imperita sia attuativa di uno specifico ordine di servizio del datore di lavoro per lo svolgimento di una determinata attività lavorativa, nonostante la sussistenza di condizioni di pericolo per le modalità dell'esecuzione, il comportamento colposo del lavoratore assume efficacia soltanto di mera occasione o modalità dell’iter produttivo dell'evento, la cui responsabilità va, dunque, ascritta per intero al datore di lavoro.

Per “intero”, per essere chiari, significa che non ci può essere alcuno spazio per una limitazione di responsabilità del datore di lavoro e per l’ingresso del concorso di colpa del lavoratore.

In tutte le ipotesi in cui la condotta del lavoratore dipendente - in quanto attuativa di uno specifico ordine di servizio del datore di lavoro (o del dirigente, o anche solo del preposto che ne faccia le veci in concreto: ad esempio il capo turno) – finisce, infatti, per configurarsi nella determinazione dell'evento dannoso (con termine tecnico si chiama “eziologia”) come una mera modalità dell'iter produttivo del danno, tale condotta, proprio perché “imposta” in ragione della situazione di subordinazione in cui il lavoratore versa, va addebitata al datore di lavoro, il cui comportamento, concretizzantesi, invece, nella violazione di specifiche norme antinfortunistiche (o di regole di comune prudenza) e nell'ordine di eseguire incombenze lavorative pericolose, funge da unico efficiente fattore causale dell'evento dannoso.

Facciamo un esempio: un dipendente, magari anche rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, a cui era stato ordinato di pulire le canaline di un magazzino cade da un tetto a causa dello sfondamento di un lucernario in plexiglass ed il datore di lavoro sostiene di non avere colpa per non avere mai ordinato all’infortunato, che dunque ha fatto tutto di testa sua, di salire sulla copertura; in un caso del genere, nel quale il lavoratore ha solo messo in atto la manovra ritenuta più opportuna, sebbene molto imprudente, per svolgere il proprio incarico, non gli può essere imputato nulla: egli, come detto, si è fatto male effettuando le proprie mansioni e, pur sottovalutando il rischio che correva, ha solo dato esecuzione ad un incarico dell’azienda, la quale, viceversa, avrebbe dovuto apprestare, e provare di aver apprestato, tutte le misure di sicurezza idonee per evitare che quell’incidente capitasse.

La giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione è molto ma molto chiara su questo tema (citiamo, in particolare: n.1994/2012 e n.16474/2012).

Per un caso specifico molto particolare in cui è stato applicato il principio del concorso di colpa (lo scrivente nel primo grado di giudizio aveva difeso il committente assolto con formula piena) vedi Cassazione Penale, Sez. 4, 12 settembre 2019, n. 37765 -:

La vicenda storica è la seguente.

All’interno del cantiere edile situato in provincia di Varese, una c.d. "bocca di lupo", gettata in opera il giorno precedente, crollava, mentre l’addetto . era impegnato ad eseguire lavori di disarmo del manufatto, così schiacciandolo e determinando la morte sul colpo.

Le indagini consentivano di accertare la mancanza nel piano di sicurezza e di coordinamento e nel piano operativo di sicurezza di una specifica previsione delle attività di disarmo delle bocche di lupo site nei locali delle autorimesse e di una dettagliata spiegazione e determinazione delle attività da porre in essere sotto il punto di vista costruttivo ed antinfortunistico. Qualora il lavoro da svolgere fosse stato correttamente previsto e pianificato, la vittima avrebbe saputo dove e come operare e l'evento letale non si sarebbe verificato.

La Corte territoriale ha escluso che nella fattispecie ricorresse un'ipotesi di abnormità, di eccezionalità o di esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo. Tenuto conto dell'esperienza nel settore del lavoratore deceduto , capo cantiere, della capacità di valutare la pericolosità della rimozione degli stocchetti e della consapevolezza del mancato ancoraggio al muro del manufatto in sospensione, la Corte territoriale ha configurato un suo concorso di colpa al 50%. Il F.M. procedeva mediante le medesime modalità adoperate per le bocche di lupo più piccole, ma la sua valutazione si rivelava imprudente.

Contro la condanna ricorrevano in Corte di Cassazione il titolare dell’impresa ed il coordinatore in fase di esecuzione, nonché direttore dei lavori.

Nei motivi in particolare lamentavano che la causa dell'infortunio doveva ascriversi esclusivamente alla condotta della vittima che, all'insaputa di ogni soggetto garante, operava dopo aver assunto alcolici, in violazione del divieto assoluto prescrittogli dalla legge ed esponendosi a pericoli derivanti dal non essere compos sui nell'attività svolta in cantiere.

La vittima aveva realizzato il disarmo delle sole pannellature verticali interno al getto e aveva rimosso i vincoli laterali, tentando di creare un varco di accesso sotto l'armatura per giungere a costruire un paio di pilastrini in muratura che, all'esito del disarmo, da effettuare dopo circa venti giorni, avrebbe assicurato uno stabile sostegno alla bocca di lupo, consentendo l'ultimazione delle opere di riempimento e di vincolo. Chiedevano di essere assolti in quanto si trattava di un comportamento imprudente del lavoratore.

Nel confermare la sentenza di condanna la Suprema Corte così motiva: in ordine alla prevedibilità delle circostanze che hanno determinato l'evento lesivo del lavoratore, i giudici di merito hanno affermato la non eccentricità e la non imprevedibilità del comportamento del lavoratore ed hanno evidenziato come la negligenza della vittima costituisse un ordinario accadimento fortuito, preventivamente controllabile e intuibile in anticipo.

L'assunto del giudice d'appello è corretto e conforme al principio più volte affermato dalla Corte di legittimità in materia di infortuni sul lavoro, secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, la condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore, idonea ad escludere il nesso causale, non è solo quella che esorbita dalle mansioni affidate al lavoratore, ma anche quella che, nell'ambito delle stesse, attiva un rischio eccentrico od esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez. 4, n. 5007 del 28/11/2018, dep. 2019, Musso, Rv. 275017); nello stesso senso, si è affermato che, in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016, dep. 2017, Gerosa, Rv. 269603).

Pertanto, in tema di causalità, la colpa del lavoratore, concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica ascritta al datore di lavoro ovvero al destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione, esime questi ultimi dalle loro responsabilità solo allorquando il comportamento anomalo del primo sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore (Sez. 4, n. 16397 del 05/03/2015, Guida, Rv. 263386). 

A ciò deve aggiungersi che la condotta imprudente o negligente del lavoratore, in presenza di evidenti criticità del sistema di tutela approntato dal datore di lavoro, non potrà mai spiegare alcuna efficacia esimente in favore dei soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza. Tali disposizioni, infatti, sono dirette a difendere il lavoratore anche da incidenti che possano derivare da sua colpa, dovendo, il datore di lavoro, prevedere ed evitare prassi di lavoro non corrette e foriere di eventuali pericoli (Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017, Meda, Rv. 269255; Sez. 4 n. 22813 del 21/4/2015, Palazzolo, Rv. 26349.

AVV. MAURO DALLA CHIESA

Laureato in Giurisprudenza all’Università Statale di Milano è iscritto all’Albo degli Avvocati del Foro di Varese e patrocinante innanzi la Corte di Cassazione ed alle giurisprudenze Superiori. Dal 1992 si occupa in particolare di diritto del lavoro con riferimento ad infortuni sul lavoro e malattie professionali, in collaborazione con ANMIL. Ha maturato un’importante esperienza nel settore patrocinando molti infortunati invalidi del lavoro in tutte le vertenze di categoria. Attualmente è fiduciario delle sedi ANMIL di Gallarate, Varese, Verbania, Biella, Novara ed è consulente legale nazionale dello stesso Patronato. E’ autore di pubblicazioni sul sito internet dell’ANMIL, “Obiettivo Tutela” e collabora con il mensile “Vita”.